sabato 5 dicembre 2015

L'Elisir d'amore di Gaetano Donizetti a cura di Fernando Greco

IL SEMPITERNO FASCINO DELLA GIOVINEZZA
Breve introduzione all’opera “L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti

di Fernando Greco


A quasi due secoli dalla sua creazione, “L'elisir d'amore” mantiene intatta un'innata freschezza. Se il canovaccio dell'opera rispecchia apparentemente i canoni dell'opera buffa settecentesca, compreso un palese riferimento alle maschere della Commedia dell'Arte, il lirismo infuso dal tessuto musicale è già Romanticismo vissuto con tutta l'ingenuità e la forza della prima “cotta” adolescenziale (o “scuffia” che dir si voglia). Per tali motivi, l'Elisir rimane per eccellenza l'opera della giovinezza, contrapposta al “Don Pasquale”, l'altro capolavoro buffo di Gaetano Donizetti (1797 – 1848), che invece rappresenta l'autoironica constatazione del decadimento.

CAPOLAVORO PER CASO
Come molti capolavori, “L'Elisir d'amore” sarebbe stato creato in fretta e per caso, se si dà credito alla celebrativa biografia di Felice Romani, librettista dell'opera, scritta da sua moglie Emilia Branca. L'impresario Alessandro Lanari (soprannominato all'epoca il “Napoleone degli impresari”) si era trovato nell'emergenza di avere entro due settimane un nuovo titolo per il cartellone del Teatro alla Canobbiana a causa dell'improvvisa defezione di un ignoto compositore; pertanto egli propose a Donizetti quest'insolito tour de force. Come dire di no a quello che era il teatro milanese più importante dopo il Teatro alla Scala? E soprattutto, come dire di no al celebre impresario dopo il mezzo fiasco ottenuto alla Scala qualche mese prima con l'opera “Ugo, conte di Parigi”? Fu così che Donizetti propose la titanica impresa a Felice Romani: “Io mi sono obbligato a mettere in musica un poema entro quattordici giorni. Concedo a te una settimana per apparecchiarmelo; vediamo chi ha più coraggio di noi due!”

UNA LACRIMA FURTIVA … E OCCASIONALE
In accordo con il musicista, Romani tradusse in italiano il libretto scritto da Eugène Scribe per l'opera
“Le philtre” di Daniel Auber allestita all'Opéra-Comique di Parigi nel 1831, aggiungendo di suo soltanto il quartetto “Adina credimi” e la splendida aria di Adina “Prendi, per me sei libero”. Secondo il racconto della Branca “... Tutto procedette rapidamente e pienamente d'accordo fra Poeta e Maestro, fino alla scena ottava dell'atto secondo; qui il Donizetti volle introdurre una romanza per tenore, a fine di sfruttare una musica da camera, che conservava nel portafogli, della quale era innamorato […] Romani in sulle prime ricusò dicendo: - Credilo, una romanza in quel posto raffredda la situazione! Che c'entra quel semplicione villano, che viene lì a fare una piagnucolata patetica, quando tutto deve essere festività e gaiezza? – ”
Il tempo avrebbe dato ragione al compositore: la romanza osteggiata da Romani sarebbe diventata il brano più celebre dell'opera, quella “Furtiva lagrima” che tanta fortuna avrebbe portato a nomi del calibro di Schipa o di Pavarotti.

UN SUCCESSO INSPERATO
La sera della prima, il 2 maggio 1832, il successo giunse talmente strabiliante e inatteso al punto che “il Napoleone” si affrettò a programmare ben trentadue repliche, che videro tutte il plauso del pubblico e della critica, persino quella solitamente più maldisposta nei confronti di Donizetti, tra cui citiamo Francesco Pezzi, che sulla “Gazzetta Privilegiata” si profuse in un largo encomio: “... Lo stile musicale di questo spartito è vivo, brillante... Una stromentazione che si scorge lavoro di gran maestro accompagna un canto or vivo or brillante or passionato...” Il Bergamasco però sarebbe rimasto per tutta la vita ipercritico nei confronti del suo “Elisir” e francamente perplesso dinanzi a tanta popolarità: dopo aver letto la recensione del Pezzi, egli si affrettò a scrivere al suo maestro Simone Mayr le seguenti parole: “La Gazzetta dice troppo bene dell'Elisir, troppo, credete a me... troppo!” Il successo della prima avrebbe ricevuto una definitiva conferma tre anni dopo, al Teatro alla Scala, grazie anche ad un cast di prim'ordine che includeva la celeberrima Maria Malibran.

IL NUOVO LIRISMO
Dopo le molteplici farse scritte per i palcoscenici napoletani, di certo Donizetti non era nuovo al genere buffo, che in Elisir egli affronta mostrando di conoscere perfettamente gli stereotipi della Commedia dell'Arte. E' facile riconoscere nel personaggio di Belcore l'epigono del “Miles Gloriosus” di Plauto, quel militare goffo nella sua spacconeria che nel tempo aveva assunto il nome di Capitan Fracassa o Capitan Spaventa. Altrettanto agevole è individuare nella figura di Dulcamara i tratti tipici del Dottore così come viene rappresentato nella Commedia dell'Arte, ovvero l'imbonitore saccente e ciarlatano, che peraltro compare in scena sillabando alla maniera rossiniana. Tuttavia la vera novità dell'Elisir consiste in un'atmosfera di patetico lirismo (sempre a lieto fine) che fa sì che quest'opera si discosti decisamente dalla tradizione buffa settecentesca e si accosti a quel genere semiserio che avrebbe caratterizzato la transizione tra Settecento e Ottocento (si pensi a titoli come “La Cecchina” di Piccinni o “La gazza ladra” di Rossini), e ciò è evidente soprattutto nel personaggio tenorile di Nemorino. L'Elisir è spesso ricordato come “l'opera della Furtiva Lagrima”, non solo per la struggente bellezza di questa pagina, ma anche perchè il personaggio di Nemorino ci commuove e ci seduce fin dall'inizio dell'opera per la sua fresca ingenuità e il suo giovanile ardore. Nella sua dabbenaggine (non per niente si autodefinisce un “idiota”) egli è un puro di cuore, e troverà nel vino spacciatogli per farmaco miracoloso (il “magico liquore”) il coraggio per credere in sé stesso, scoprendo una sopraggiunta maturità. Anche l’amata Adina, che compare in scena come una donna sicura di sé, civettuola e poco avvezza a sentimentalismi, imparerà da Nemorino il valore dell’amore autentico e saprà trovare nel suo canto accenti accorati di sublime bellezza (è il momento dell’aria “Prendi, per me sei libero”). In conclusione, per dirla con lo studioso Oreste Bossini, “L’Elisir d’Amore entra nel cuore prima che nel cervello, ed io annovero quest’opera tra le cose per le quali val la pena di vivere”.


TRAMA

Atto Primo.

Scena Prima – In campagna, in una calda giornata estiva, un gruppo di mietitori fa una pausa all’ombra di un albero mentre la fittavola Adina legge ad alta voce un libro che parla di come Tristano fosse riuscito a conquistare il cuore della regina Isotta ricorrendo a un farmaco miracoloso. In disparte Nemorino, innamorato di Adina, osserva la scena lamentando la propria inferiorità intellettuale rispetto alla ragazza. La lettura viene interrotta dall’arrivo di alcuni soldati comandati dal sergente Belcore che, tronfio di una goffa virilità, chiede ad Adina ospitalità per la truppa offrendole dei fiori, sicuro che nessuna donna possa resistere al suo fascino. La giovane sembra stare al gioco, suscitando la gelosia di Nemorino che, rimasto solo con lei, rinnova le proprie profferte amorose, puntualmente respinte. Adina ribatte di essere per natura incostante e gli consiglia di correre piuttosto in città ad assistere lo zio malato nella speranza di un’eredità futura.

Scena Seconda – Nella piazza del villaggio giunge il dottor Dulcamara che, presentandosi come un medico di fama internazionale, propone ai paesani l’acquisto del suo “specifico”, ovvero un elisir in grado di guarire qualsiasi malattia. Diradatasi la folla, Nemorino si avvicina a Dulcamara per chiedergli se possieda il miracoloso elisir d’amore della regina Isotta. L’astuto imbonitore, intuita la dabbenaggine del giovane, gli vende una bottiglia di Bordeaux spacciandola per il miracoloso elisir che, ventiquattr’ore dopo essere stato bevuto, avrebbe procurato al giovane tutte le ragazze che avesse desiderato. In realtà le ventiquattr’ore sarebbero servite a Dulcamara per svignarsela. Rimasto solo, Nemorino comincia a bere e, un sorso dopo l’altro, si ubriaca. Al giungere di Adina egli fa l’indifferente, sicuro che il giorno dopo la donna gli sarebbe caduta tra le braccia. Ella, indispettita dal comportamento di Nemorino, si propone a Belcore come sua sposa. Frattanto viene consegnato al sergente un dispaccio che ordina alle truppe di cambiar sede seduta stante e perciò Adina accetta di sposarsi in quello stesso giorno. Davanti a questa novità, l’euforia di Nemorino si trasforma in disperazione ed egli supplica la ragazza di rinviare le nozze di almeno un giorno, poiché spera che nel frattempo si manifesti l’effetto dell’elisir. Adina è irremovibile ed invita tutti i presenti a casa sua per il banchetto di nozze.


Atto Secondo.

Scena Prima – E’ in atto la festa nuziale: tutti mangiano, brindano e cantano in onore degli sposi. Al sopraggiungere del notaio per la stesura del contratto, Adina si mostra contrariata poiché, per poter gustare appieno il sapore della vendetta, vorrebbe che Nemorino fosse presente alle nozze. Tutti si allontanano al seguito del notaio, tranne Dulcamara che invece rimane a tavola per strafogarsi in piena libertà. Giunge Nemorino in preda alla massima afflizione e chiede a Dulcamara se esista un modo per anticipare l’effetto dell’elisir d’amore. Il falso dottore consiglia al giovane di berne un’altra bottiglia, ma Nemorino non ha più il becco di un quattrino per acquistarla. Torna Belcore, meravigliato del fatto che Adina abbia differito le nozze di qualche ora, e propone al giovane di arruolarsi nella sua truppa, non soltanto per poter guadagnare subito la bella somma di venti scudi, ma anche per godersi per tutta la vita gli innumerevoli vantaggi della vita militare. Detto, fatto! Nemorino firma con una croce il contratto di arruolamento, riscuote il denaro e poi corre felice da Dulcamara per l’acquisto del “mirabile liquore”.


Scena Seconda – Alcune contadine si trasmettono l’una l’altra una notizia sensazionale che ha cominciato a diffondersi in paese: lo zio di Nemorino sarebbe morto lasciando il nipote unico erede di un’immensa fortuna. Al giungere di Nemorino, ancora ignaro della sua eredità, tutte si profondono in esagerati corteggiamenti poiché ognuna spera di diventarne la moglie; il giovane, lusingato da tante attenzioni, crede che ciò sia frutto dell’elisir d’amore, di cui si è già scolato la seconda bottiglia. La scena non sfugge agli sguardi di Dulcamara e di Adina: finalmente la ragazza si scopre triste e gelosa, e Dulcamara le chiarisce la faccenda, quasi quasi convinto anch’egli che tutto il merito sia da ascrivere al magico elisir. Ma Adina, appena informata su come il giovane, pur di colpire il cuore di una donna crudele, si fosse procurato l’elisir d’amore della regina Isotta a costo di arruolarsi nell’esercito e perdere la libertà, comprende tutto e, sinceramente pentita, si propone di recuperare l’amore di Nemorino. D’altro canto quest’ultimo, comparendo da solo in scena, si mostra commosso e speranzoso poiché gli è sembrato che dagli occhi di Adina, durante il corteggiamento da parte delle donne, spuntasse una “furtiva” lacrima, forse segno di un nascente affetto. Sopraggiunge Adina la quale restituisce a Nemorino il contratto di arruolamento che ella ha appena riscattato da Belcore, ma il giovane, poiché la ragazza non ha apparentemente null’altro da dirgli, le grida che preferisce morire soldato piuttosto che non essere amato. Adina allora si getta tra le sue braccia, ammettendo finalmente il proprio amore, mentre a Belcore non resta che rassegnarsi e partire, sicuro di trovare presto un’altra donna sensibile al fascino dell’uniforme. Giunge anche la carrozza di Dulcamara che, dopo aver venduto qualche altra bottiglia di farmaco miracoloso, saluta tutti e lascia il villaggio, nella soddisfazione generale.

lunedì 23 novembre 2015

Maglie: una piccola grande Bohème

01
Capita che qualche giorno dopo aver assistito a un grandioso allestimento della Bohème in quel di Bari, ti trovi senza nessuna aspettativa ad assistere a uno spettacolo “di paese”, di quelli a cui vai soltanto per applaudire gli amici, i volenterosi amici che senza orchestra, senza coro e senza soldi si impuntano a voler fare Bohème sul minuscolo palcoscenico del cine-teatro Moderno di Maglie, luogo come tanti altri in cui la necessità non diventa quasi mai virtù e l’imprevisto è sempre in agguato, compreso l’incepparsi del sipario. E invece ti trovi davanti al miracolo, il miracolo di quell’affinità al contempo umana e sovrumana che unisce in un unico abbraccio spettatori e interpreti per celebrare un rito comunitario, il magico rito del teatro, perché teatro sono le persone, le esperienze di vita che qualche genio come Puccini ha sublimato e universalizzato regalandole ogni volta vive e palpabili come fosse la prima volta.


FRESCHEZZA E POVERTA’
04_Giorgio Schipa
Se Puccini è “il geniaccio a cui riusciva maledettamente bene il suo lavoro” (parafrasando Baricco), la giovane e talentuosa regista Rosangela Giurgola è stata a Maglie la sua devota ancella, colei che, pur nella scarsezza di mezzi, è riuscita a evocare nel cuore del pubblico quella stagione unica e irripetibile della giovinezza di cui “La Bohème” è universale testimonianza. E quale può essere la stagione della gioventù per un adulto del 2015? Verosimilmente quella vissuta in un disadorno appartamentino preso in affitto insieme ad altri tre o quattro amici durante gli anni dell’università. Ecco qua il
03_Carlo Provenzano
 formidabile tuffo al cuore, quando all’aprirsi del sipario vedi quattro ragazzi in abiti contemporanei che condividono la povertà e la freschezza dei loro “anni di galera”, il pittore con le sue tele e le sue cornici, lo scrittore con i suoi fogli, il filosofo con i suoi libri e persino due musicisti con contrabbasso e pianoforte, poiché anche il pianoforte suonato per davvero dal volenteroso Nicola Morello è diventato parte della scena. In siffatto contesto, non ha senso chiedersi se il personaggio di Mimì sia più angelico o più provocatorio, poiché siamo nel XXI° secolo e non c’è da meravigliarsi se una giovane donna decide di vivere da sola, di prendere lei l’iniziativa con un uomo e addirittura di convivere con il suo compagno. Semmai viene da riflettere su quanto nell’Ottocento lo stile bohémien fosse all’avanguardia rispetto al provinciale perbenismo italiano, ancora oggi non del tutto annientato. Peccato per il vistoso taglio del secondo atto: quel sapiente intreccio di varia umanità che è anche il più importante banco di prova per il coro (quando c’è) e per il regista, qui è stato ridotto al dialogo tra i cinque bohémiens e all’entrata di Musetta. Eppure anche in questo caso il versante visivo non dispiaceva, composto esclusivamente dal bancone di un pub intorno a cui altercavano i protagonisti, con contorno di camerieri e giovani avventori in giubbini di pelle, praticamente un estratto della movida notturna. Peraltro la regista non ha sprecato nemmeno una nota dell’opera, pretendendo dai protagonisti movenze e gestualità sempre originali e studiatissime, che essi hanno realizzato con indubbia spontaneità, come ad esempio il comico tentativo dei bohémiens di eludere il padrone di casa mimetizzandosi tra le cornici dei quadri o il fatto che Rodolfo restituisca a Mimì la fatidica chiave durante la fine del primo atto oppure l’esilarante inseguimento tra Musetta e Marcello alla fine del terzo atto in cui, contrariamente al solito, è lei che vuole menare lui e non viceversa. L’inevitabile semplicità delle scene di Romeo Sicuro è stata arricchita dalle proiezioni di colorati sfondi parigini dipinti da Leonid Afremov, su cui campeggiava la scritta “Je suis Paris” in memoria delle vittime della recentissima strage. A tal proposito all’inizio dello spettacolo è stato osservato un minuto di silenzio.





UNA BELLA COPPIA E TANTI AMICI


La giovane compagnia di canto si è mostrata discretamente omogenea e in perfetta sintonia con le intenzioni registiche, a cominciare dall’intensa Mimì di Maria Luisa Lattante, soprano dal pregevole timbro vocale a cui la fresca liricità del personaggio calzava a pennello. 
05_Maria Luisa Lattante e Enrico Terrone
Notevole l’affiatamento con il Rodolfo interpretato con altrettanta freschezza e timbro vigoroso dal tenore Enrico Terrone, complice l’indubbia bellezza fisica di entrambi, una bella coppia anche per l’occhio. Il soprano Gloria Giurgola, chiamato a sostituire all’ultimo momento l’indisposta Simona Gubello, ha dato vita a una spigliatissima Musetta, vocalmente sicura e scenicamente irresistibile. Commovente la credibilità e l’aplomb 
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vocale del baritono Luca Simonetti nel ruolo di Marcello, il basso Carlo Provenzano ha interpretato il ruolo del “contrabbassista” Schaunard con voce possente e convincente phisique du role, ricco di voce il Colline del basso Antonio Mazza. Il baritono Giorgio Schipa ha vestito i panni di Benoit e di Alcindoro con puntuale verve comica e giusta caricaturalità. Il pianoforte dell’abile maestro Nicola Morello ha assolto senza cedimenti all’impegnativo ruolo di sostituto d’orchestra.
La Stagione Lirica di Maglie proseguirà il 14 dicembre prossimo con “L’Elisir d’amore”, altro sublime capolavoro dedicato alla gioventù, e speriamo che il miracolo di questa piccola grande Bohème si ripeta ancora, perché teatro … sono le persone.

domenica 15 novembre 2015

LA BOHÈME di Giacomo Puccini a Cura di Fernando Greco


LA GIOVINEZZA NON HA CHE UNA STAGIONE
Breve introduzione all’opera “La Bohème” di Giacomo Puccini

di Fernando Greco


“La Bohème” di Giacomo Puccini (1858 – 1924) non cessa di colpire il cuore dell’ascoltatore grazie al lirismo di una mirabile pagina musicale che continua a tramandare eterna e immutabile la freschezza dell’età giovanile, l’infinita tenerezza di quell’età beffarda, spensierata e libertina destinata per ognuno a concludersi bruscamente con la constatazione dell’umano dolore.  

VITA D’ARTISTA
All’indomani del trionfo di “Manon Lescaut”, opera andata in scena a Torino nel 1893, Puccini volse le
sue attenzioni al romanzo “Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger (1822 – 1861) il cui successo echeggiava negli ambienti culturali europei a quarant’anni dalla sua pubblicazione. Per la prima volta nella storia, con Murger il termine “bohémien” diventava sinonimo dell’artista giovane e squattrinato che inseguiva il proprio desiderio di visibilità e di successo nella Parigi dell’Ottocento, indiscussa capitale europea della cultura. Come zingari senza regole e senza fissa dimora, frotte di intellettuali condividevano una vita fatta di ideali e sentimenti autentici, ma anche di eccessi e trasgressioni, una vita insidiata dall’estrema povertà e dall’attesa, spesso illusoria, della fatidica svolta. Lo stesso Murger condusse un’esistenza da “bohémien” conclusasi in un ospizio all’età di trentotto anni, e la sua opera letteraria attinse a piene mani dalle personali esperienze in seno al gruppo di artisti denominati “Buveurs d’eau” di cui faceva parte. Il successo del romanzo “Scènes de la vie de Bohème”, comparso a puntate tra il 1845 e il 1849 su “Le corsaire de satan” (testata diretta da Gérard de Nerval), regalò all’autore un periodo di celebrità e di fugace agiatezza. Nel 1849 lo scritto divenne una pièce teatrale molto apprezzata da nomi del calibro di Victor Hugo e Théophile Gautier; nel 1851 fu pubblicato per intero in un unico volume.

EGLI MUSICHI, IO MUSICHERO’
Ironia della sorte, Giacomo Puccini e Ruggero Leoncavallo (1857 – 1919) cominciarono contemporaneamente a lavorare su “La Bohème” all’insaputa l’uno dell’altro, entrambi reduci dallo strepitoso successo riportato dalle rispettive opere “Manon Lescaut” e “Pagliacci”. Alla scoperta della cosa, ognuno si ritenne il primo ideatore del progetto e pertanto i due, pur amici di vecchia data, intrapresero una feroce battaglia su carta stampata per garantirsi il primato dell’idea. Dopo vari comunicati da parte dei relativi editori, ovvero Sonzogno per Leoncavallo e Ricordi per Puccini, lo stesso Puccini sfidò personalmente il collega sulle pagine del Corriere della Sera del 21 marzo 1893: “E’ certo che se il maestro Leoncavallo, al quale da tempo sono legato da vivi sentimenti di amicizia, mi avesse confidato prima quello che improvvisamente mi ha fatto sapere l’altra sera, io non avrei allora pensato alla Bohème di Murger. Ora, per ragioni facili a comprendersi, non sono più in tempo a voler essere cortese come vorrei all’amico e al musicista. Del resto, cosa importa al maestro Leoncavallo di questo? Egli musichi, io musicherò. La precedenza in arte non implica che si debba interpretare il medesimo soggetto con uguali intendimenti artistici. Tengo solo a far sapere che da circa due mesi, e cioè fin dalle prime rappresentazioni di Manon Lescaut, ho lavorato seriamente alla mia idea e non ne ho fatto mistero con alcuno”.

DIRITTI ALLO SCOPO
Durante la gestazione dell’opera non mancarono intoppi e perplessità tra Puccini e i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa (team che l’editore Giulio Ricordi amava definire scherzosamente “santissima trinità”, responsabile dei titoli più importanti del catalogo pucciniano quali Manon Lescaut, Bohème, Tosca e Butterfly). Su tutto predominava l’esigenza di sintesi da parte del compositore, desideroso di trarre dalla dispersiva coralità del romanzo singole situazioni che evidenziassero l’intima purezza dei personaggi femminili, come sempre quelli a cui dedicava le sue maggiori cure. In particolare Puccini intervenne sulla trama del quarto e ultimo atto dell’opera, eliminando qualsiasi elemento del testo letterario che potesse distrarre l’ascoltatore dalla morte di Mimì. A tal proposito così scriveva a Illica: “All’atto quarto è tutta roba inutile e musicando ho visto che è meglio andar diritti allo scopo!” E per allentare le tensioni dopo l’ennesimo alterco con Giacosa, il musicista gli inviò simpaticamente i seguenti versi:

“Ti rammento l’atto quartoPerch’io presto me ne parto.Cerca, trova, taglia, inverti,che tu re sei tra gli esperti.Ti ricordi di ridurrele scenette in cima all’atto?Quando tutto sarà fatto,qual sospiro emetterem!Ma la morte di Mimìsolo tu puoi preparar,poi con quattro do, re, milancerem la barca in mar!”


IL MANICOTTO DI FRANCINE
Nell’ultimo capitolo del romanzo, intitolato “La giovinezza non ha che una stagione”, Murger mostrava come i quattro amici bohèmiens, un anno dopo la morte di Mimì, fossero diventati ricchi e famosi e ricordassero il passato non senza nostalgia, mentre Puccini voleva far terminare la stagione della gioventù e la sua stessa opera con l’amaro disincanto della morte. Di fatto la composizione dell’ultimo atto de “La Bohème” tolse il sonno al suo autore per un intero anno, fino a quando Giacosa e Illica gli proposero di inserire nella vicenda il particolare del manicotto di pelliccia che nel romanzo originario apparteneva non a Mimì, ma a Francine, personaggio femminile protagonista di un toccante episodio collaterale narrato nel capitolo intitolato per l’appunto “Il manicotto di Francine”.  La proposta piacque al Maestro: finalmente l’opera venne ultimata e, il 1 febbraio 1896, debuttò sul palcoscenico del teatro Regio di Torino, lo stesso che tre anni prima aveva accolto i fasti di “Manon Lescaut”. Per l’occasione, Ricordi ingaggiò un promettente direttore d’orchestra, ovvero un Arturo Toscanini appena ventottenne, la cui formidabile concertazione non fu però in grado di evitare la fredda accoglienza da parte della critica. All’indomani della prima, così Carlo Bersezio scriveva su “La gazzetta piemontese”: “La Bohème, come non lascia grande impressione nell’animo degli uditori, così non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico”. Mai sentenza si sarebbe rivelata più erronea se già a partire dalle repliche romane della fine del febbraio 1896, “La Bohème” avrebbe intrapreso il suo glorioso cammino nel mondo.          

LO STILE DI CONVERSAZIONE
“Melodista gentile, sospiroso, sentimentale, Giacomo Puccini si compiacque dell’idillio e dell’elegia, dei mezzi toni espressivi, delle sfumature delicate … Prese le mosse dalla femminea eleganza di Massenet, non ignorò i sortilegi dell’arte debussysta e si compiacque sempre nell’eleganza un po’ mondana di tono francese”. Il compositore de “La Bohème” è tutto in questo giudizio espresso dall’autorevole Massimo Mila (“Breve storia della musica” – 1963), la cui formidabile capacità di sintesi rimane ineguagliata nella storia della critica musicale. Sulla scia del “Werther” di Jules Massenet (1842 – 1912), rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1892, Puccini continua a coltivare quello stile “di conversazione” di matrice impressionista, irrobustito da un’inventiva melodica tutta peculiare, che talora si espande in oasi liriche dal potere ipnotico, destinate a rimanere per sempre scolpite nel cuore dell’ascoltatore. Le memorabili parole di Debussy a proposito di quella “infaticabile curiosità di Massenet a cercare nella musica documenti per servire alla storia dell’anima femminile” si attagliano ancor meglio alla creatività pucciniana, tesa alla realizzazione di donne indimenticabili. Mentre il romanzo di Murger verte sulle vicissitudini dei quattro amici “bohémiens”, il nucleo de “La Bohème” di Puccini è rappresentato dal personaggio di Mimì e dalla storia d’amore che si conclude con la morte di lei, eventi rispetto ai quali tutto il resto della vicenda diventa parallelo, seppur non meno efficace. Se la Mimì di Murger è una donnina non priva di cinismo e di senso pratico, che lascia e prende il suo Rodolfo per due volte (un po’ come succede nelle attuali soap-opera), la Mimì di Puccini è una “soave fanciulla” innamorata della vita, una vita minata dalla malattia fin dal primo atto dell’opera: la “gelida manina”, il “viso da ammalata”, non ostacolano la sua sete di felicità, l’attesa della primavera, quando ella spalancherà la finestra della sua soffitta per accogliere il calore del sole e godersi la fioritura di quelle rose che d’inverno può solo limitarsi a ricamare. Nell’incantevole scena dell’incontro con Rodolfo, è lei a prendere l’iniziativa, dapprima con la scusa del lume spento e poi con quella della chiave perduta: se mai si possa parlare di seduzione, mai gioco della seduzione fu più tenero e commovente. In contrasto con Murger, Puccini trova il modo di salvaguardare l’innocenza di Mimì in ogni dettaglio della vicenda, perfino nel momento in cui la ragazza abbandona lo squattrinato Rodolfo per accettare le profferte amorose di un ricco visconte: paradossalmente sarebbe lo stesso Rodolfo a consigliare alla donna una tale soluzione affinchè ella, all’aggravarsi delle proprie condizioni di salute, possa vivere in maniera più confortevole.




LA CHANTEUSE, IL PITTORE E IL FILOSOFO
Accanto ai due protagonisti, non meno tenera è la coppia costituita da Marcello e Musetta. In particolare ci colpisce la finta indifferenza con cui il pittore cerca di dissimulare la gelosia nei confronti dell’amata, donna molto più disinibita di Mimì, che nel secondo atto si presenta al pubblico come una discinta chanteuse. Basta però ascoltare la struggente melodia che Puccini le mette in bocca, seppur mascherata dalla leggerezza del ritmo di un valzer alla francese, per convincersi dell’indubbia bontà di fondo del personaggio. Pertanto, alla fine del secondo atto, l’abbraccio con il ritrovato Marcello riuscirà a commuoverci quasi quanto la scena della morte di Mimì. Non a caso sarà la stessa Musetta, verso la fine dell’opera, a recitare una preghiera per l’amica moribonda. Come non intenerirsi, infine, dinanzi all’austero e anarcoide filosofo Colline? La sua predilezione per i libri antichi, la sua barba incolta nonché la sua corda di basso profondo, ne fanno l’esempio di quell’adolescente intellettualmente “impegnato”, colui che si crede tutto d’un pezzo, ma che nell’intimo nasconde una singolare nobiltà d’animo. E così, verso la fine dell’opera, anche la sua “Vecchia zimarra” riuscirà a commuoverci quasi quanto la morte di Mimì.

partitura di La Bohéme autografa

martedì 29 settembre 2015

Quando la tradizione diventa spettacolo. Parte prima

Il termine che più di altri rappresenta il Salento è per "tradizione".
Popolo di contadini, di braccianti, di muratori, di pescatori e…. di musicisti, sì perché in ogni famiglia almeno uno dei componenti sapeva/doveva suonare qualche strumento: tamburello, chitarra, mandolino, fisarmonica o organetto, qualcuno anche il violino e strumenti a fiato.
Si suonava e si cantava ad "orecchio", senza tante pretese ma solo per il semplice gusto di suonare e scaricare attraverso quei suoni, quei balli la stanchezza di una giornata lavorativa passata sotto al Sole cocente, tra la rossa terra, i verdi ulivi o le generose vigne oppure dopo essere stati cullati per ore dall'ondeggiare del mare, tra salmastro e lunghi orizzonti.

La donna "regina del focolare" con sapienza preparava succulenti piatti di estrema semplicità, pochi ingredienti, non c'erano soldi per comprare tante cose e soprattutto ingredienti del proprio orto.
Ci si ritrovava così insieme "allu tata" (al papà) a mangiare in piatti di ceramica ottimi "passaricchi" fatti a mano con acqua e farina (taglio di pasta simile ai semini) al pomodoro e a bere un "niurumaru" del Salento o invidiate "friseddhre" salentine.
Dopo il pasto inizia la musica e la danza, una danza diversa da quella propiziatoria della "pizzica" poiché nessuna guarigione vi era richiesta, una danza e canti per il solo "prisciu" (gusto) di cantare alla vita e alla gioia della famiglia, della comunità… e al diavolo chi si lamenta della povertà. 
Il motto è "basta cu ncessa la salute" (basta che ci sia sempre la salute).
Dalle case questa festa si trasferisce nelle strade e così poco a poco nasce "La Banda".
Un organico inizialmente composto da soli uomini che capeggiati da un direttore suonavano ottoni, percussioni e via dicendo aiutando e acculturando chi non sapeva leggere la musica a seguire il tempo e qualche nota.
"La banda da giro" diventa un appuntamento fisso per le feste rosse del calendario e come dice la parola "gira" ovvero si sposta da paese in paese suonando nelle luccicose "casse armoniche" o case armoniche per il senso di unità e famiglia che si viene a creare tra i musicisti.


La banda è stata considerata per anni dalla musica colta rappresentata dalle orchestre sinfoniche il luogo in cui i musicisti di serie "b" andavano a suonare, in realtà passo dopo passo la "banda da giro" ha dimostrato una grande umiltà velata di fierezza, simile a quella dei contadini con gilet e unghie sporche di terra che mantengono alto l'orgoglio della povertà.
La banda diventa così un organismo solo "diverso" dall'orchestra che come quest'ultima ha il compito di far ascoltare al pubblico le melodie più belle.
La differenza consiste anzi consisteva sul luogo di esecuzione e sulla tipologia dell'ascoltatore: il teatro era il luogo dedicato alle orchestre mentre le piazze alle bande.
La cosa bella e sottolineo il termine bella è che i luoghi della musica si sono invertiti: ora orchestre e bande suonano sia in teatro che in piazza e ciò arricchisce l'ascoltatore sdoganandolo da false credenze e classificazioni di musica di serie A e di serie B così come musicisti di serie A e quelli di serie B.
Tutto ciò è avvenuto anche sabato 19 Settembre al Teatro comunale di Novoli (Le) per il festival "Bande a Sud" capeggiato dal Dir. Art. M° Gioacchino Palma, un festival rientrato del circuito dei Festival di Puglia Sound e quest'anno in diretto contatto con Expo Milano 2015.
Un giovane ma intraprendente Maestro salicese Marco Grasso che con sapienza e pazienza è da pochi anni diventato il motore della banda di Monteroni di Lecce, una banda composta per lo più da giovani musicisti studenti e non di conservatorio. 
Per loro ha proposto ed arrangiato un programma con un certo taglio innovativo.
La serata è iniziata con  l'esecuzione di una tipica 
marcia da banda rigorosamente eseguita senza direttore, per poi spaziare nel tempo, nelle mode fondendo perfettamente il gusto musicale di ieri con quello di oggi proponendo un repertorio differente dalla tradizione e avviandosi verso quello dell'orchestra di fiati e della symphonic band.
Chicca della serata è stata la partecipazione della nota pianista salentina Vanessa Sotgiu che insieme alla banda ha eseguito una versione inedite per il nostro territorio della Rhapsody in Blue di George Gershwin arrangiata per la banda di Monteroni proprio dal M° Grasso; un brano questo nato per pianoforte e big band ma in seguito trascritta per un'infinità di organici tra cui, quella più nota, per orchestra sinfonica. (Approfondimenti su Rhapsody in Blue nella seconda parte dell'articolo. Continuate a leggere) 

Dopo una lunga e scrosciante pioggia di applausi il programma è proseguito con l'esecuzioni di alcuni medley tratti da colonne sonore di films; ecco che compare "Il pirata dei Caraibi", "Il gladiatore" le immancabili melodie di Ennio Morricone che hanno sigillato il successo di innumerevoli films di Sergio Leone concludendo poi con tipici brani dallo spiccato swing resi famosi da Franck Sinatra.
Un tripudio di allegria riecheggiava in tutta la barcaccia del piccolo teatro di Novoli che per la prima volta ha accolto cotanta boccata di freschezza e gioia di vivere che solo la banda di Monteroni e la sua poliedricità sanno dare.
Concludiamo con un ovazione alla tradizione, ala banda e a chi ha la forza e la voglia di rendere sempre più attuale una delle più importanti tradizioni della nostra terra.

S.G.



mercoledì 17 giugno 2015

PIANO PIANO FESTIVAL


RADIO CLASSICA PUGLIESE media partner di
“Piano Piano” Festival che dal 2 al 5 luglio animerà ville e giardini privati a Lecce e dintorni per un lungo weekend dedicato al pianoforte. L’idea nasce dall’esigenza di trovare nuove strategie culturali che consentano alla comunità di uscire dall’impasse attuale con la creazione di nuove connessioni e dialogo aperto fra organizzatori, musicisti, mecenate e pubblico. A tale scopo l’organizzazione ha predisposto una “chiamata alla partnership” per quanti vorranno offrire la propria casa o, in qualità di aziende, fornire servizi utili allo svolgimento del festival e un crowdfunding per il pubblico che avrà la possibilità prenotare l’accesso alle serate e sostenere attivamente il progetto con una donazione. 
Il programma, curato dalla musicista Irene Scardiaideatrice del progetto, ospiterà un prestigioso programma con artisti nazionali ed internazionali. 



- Giovedì 2 luglio, presso Casa Calignano a Lecce, l'apertura del Festival con i concerti di Matija Dedic, compositore croato del roster Workin’ Label in tour per la presentazione del suo cd "Ligherian Rhapsody" ed Enrico Zanisi vincitore del premio Top Jazz 2009 e del Premio Siae 2014.


Venerdì 3 luglio il programma prosegue presso Villa De Giorgi (Monteroni di Lecce) con il compositore salentino Roberto Esposito, che presenterà il suo primo cd “The Decades” e Julian Oliver Mazzariello, noto al pubblico per la sua collaborazione con il trombettista Fabrizio Bosso.

  
Sabato 4 presso Casina Romita a Lequile ascolteremo il compositore Gianni Lenoci, titolare del dipartimento di musica Jazz presso il Conservatorio N. Rota di Monopoli e la giovane Carolina Bubbico, recentemente balzata all’attenzione nazionale per il suo ruolo di direttrice d’orchestra e arrangiatrice al Festival di Sanremo 2015.

-  Domenica 5, in Casa Sannino a Lecce, triplo set con il susseguirsi delle performance di Maria Grazia Lioy, apprezzata interprete classica ed appassionata didatta e dei compositori Greg Burk, docente di pianoforte Jazz presso il conservatorio G.B. Martini di Bologna e il polistrumentistacompositoreperformer Giacomo Riggi Mazzone.    


Le serate avranno inizio alle ore 21.00. 
Nella pausa tra i due concerti si terrà un momento conviviale realizzato con la collaborazione di aziende enogastronomiche partner del progetto.




"Piano Piano Festival", concluso il primo weekend a Lecce e dintorni, proseguirà il suo viaggio in tutto il Salento, realizzando ulteriori tappe che si realizzeranno grazie alle disponibilità dei privati che aderiranno al progetto e, perchè no, proseguirà il suo tour nelle città che vorranno ospitarlo. Per maggiori informazioni e per accedere alle serate scrivere a pianopianofestival@gmail.com o telefonare al 329.4123339
La prenotazione è obbligatoria.