giovedì 7 gennaio 2016

I Pagliacci di Ruggero Leoncavallo a cura di Fernando Greco


… ED EI CON VERE LACRIME SCRISSE!
Breve introduzione all’opera “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, in occasione dell’allestimento previsto l’11 gennaio 2016 nell’ambito della 2° Stagione Lirica Città di Maglie.

di Fernando Greco


Alle soglie del Novecento, quello squarcio di vita aperto dalla “Cavalleria rusticana” di Mascagni nel cuore del meridione d’Italia acquisisce con “Pagliacci” una forma più complessa e più matura, sorretta da una formidabile inventiva melodica, il che fa dell’opera di Ruggero Leoncavallo (1857 – 1919) il capolavoro del Verismo musicale. Per dirla con lo studioso Virgilio Bernardoni “Pagliacci rimane uno dei pochi lavori del genere verista che riesce a comunicarci il fascino di un’inquietudine drammaturgica”. 

DISPERATO MA RISOLUTO
Ruggero Leoncavallo
“Dopo il successo della Cavalleria Rusticana di Mascagni, mi chiusi in casa disperato ma risoluto a tentar l’ultima battaglia e in cinque mesi scrissi il poema e la musica di Pagliacci”. Con queste parole, l’autore rievocava in età matura lo spirito con cui, dopo anni di gavetta trascorsi a comporre canzonette per il café-chantant Eldorado di Parigi, era giunto a comporre la partitura che gli avrebbe procurato un trionfo tanto strepitoso quanto inaspettato. Figlio di un insigne magistrato, il compositore manifestò fin dall’infanzia un duplice talento musicale e letterario, diplomandosi all’età di sedici anni nel prestigioso Conservatorio di San Pietro a Majella e conseguendo successivamente la laurea in lettere nell’università di Bologna sotto la guida di Giosuè Carducci. A Parigi divenne pianista accompagnatore del celebre baritono Victor Maurel, primo interprete di Jago nell’”Otello” verdiano e successivamente primo Falstaff, che sostenne strenuamente il progetto di “Pagliacci” e accettò il ruolo di Tonio a condizione che venisse modificato il titolo originario dell’opera. Si trattava de “Il Pagliaccio”, titolo
Victor Maurel
riferito al solo personaggio tenorile di Canio, che Maurel, con manie di protagonismo, fece cambiare in “Pagliacci” affinché nel titolo dell’opera fosse compreso anche il personaggio interpretato da lui. La prima di “Pagliacci”, diretta dal giovane Arturo Toscanini al teatro Dal Verme di Milano il 21 maggio 1892, riscosse un successo clamoroso e destinato ad amplificarsi nelle repliche successive. La pionieristica incisione discografica dell’aria “Vesti la giubba”, effettuata dal tenore Enrico Caruso nel 1902, è entrata nel Guinness dei Primati per essere la prima nella storia ad aver raggiunto il milione di copie vendute.





UN DELITTO D’ONORE
Montalto Uffugo
All’indomani del debutto di “Pagliacci”, Leoncavallo dovette difendersi dall’accusa di plagio rivoltagli dal letterato Catulle Mendès, secondo il quale la trama dell’opera ricalcava quella del suo dramma “La femme de tabarin” (1876). Il musicista riuscì comunque a spuntarla rivelando di essersi ispirato a un suo ricordo d’infanzia, ossia un delitto d’onore verificatosi a Montalto Uffugo, paesino della Calabria dove suo padre era pretore. Nel giorno di Ferragosto, un domestico di casa Leoncavallo aveva accompagnato il piccolo Ruggero ad assistere a uno spettacolo di piazza, ma all’improvviso, sotto lo sguardo attonito del fanciullo, era stato aggredito e ucciso dal calzolaio del paese. Secondo il critico Lorenzo Arruga “... Leoncavallo barava: quando venne in mente pochi anni fa di controllare il verbale del processo di quell’omicidio, la storia era molto diversa, mentre La femme de Tabarin vi rassomiglia parecchio …”

COSI’ E’ (SE VI PARE)
Nel contesto dell’ambiente letterario e musicale di fine secolo, “Pagliacci” rinforza e sublima la poetica
Enrico Caruso interpreta Canio
Esquisitamente verista inaugurata da “Cavalleria rusticana” oltrepassandola nella misura in cui (forse all’insaputa dello stesso autore) l’elemento grottesco e metateatrale prefigura nuovi orientamenti drammaturgici già premonitori dell’arte espressionista e del teatro di Pirandello. Da una parte quindi, rimaniamo nell’ambito dell’estetica verista più pregnante quando consideriamo l’ambientazione “rusticana” della vicenda, l’esplosione violenta del dramma passionale in cui predominano sentimenti primordiali e profondi quali la gelosia e la vendetta. Dall’altra, “Pagliacci” rappresenta un gioco delle parti più complesso, affrontando la problematicità del rapporto persona – personaggio in maniera decisamente pre-pirandelliana. “Par vera questa scena!”: davanti al teatrino ambulante si rimane smarriti perché si è smarrita l’identità dei protagonisti. Chi si muove sul palcoscenico? L’uomo o il pagliaccio? Il personaggio o l'interprete? L’unica risposta possibile è quella che qualche anno dopo avrebbe dato Pirandello, sospendendo il giudizio in maniera lapidaria: “La verità? Così è (se vi pare)!”.


IL MANIFESTO DEL VERISMO

Prima riduzione per canto e pianoforte
Al personaggio baritonale di Tonio, così moderno nella sua grottesca deformità, è affidato il compito di reggere le fila di entrambi i piani narrativi della vicenda, ovvero il piano teatrale e quello metateatrale. Si parte con un magistrale prologo, in realtà aggiunto da Leoncavallo per fornire un’aria di bravura a Victor Maurel, suggestivo momento poetico e musicale che oltre a esporre i tre motivi musicali fondamentali dell’opera (il famoso tema di “Ridi Pagliaccio!”, quello che qualificherà la relazione tra Nedda e Silvio e quello che caratterizzerà la tremenda gelosia di Canio) rappresenta una sorta di manifesto della poetica verista. Tonio, presentandosi come Prologo in persona, spiega allo spettatore che sul palcoscenico non vedrà semplici maschere, ma uomini in carne ed ossa che metteranno in gioco autentici sentimenti umani, poiché per primo l’autore ha versato calde lacrime nell’intento di “pingere uno squarcio di vita” (esplicito riferimento alla tranche de vie cara agli scrittori del naturalismo francese). Lo stesso Tonio, respinto da Nedda, farà scoprire a Canio il tradimento di lei per poi chiudere l’opera con la cinica frase “La commedia è finita!” (espressione che nelle versioni successive dell'opera sarebbe stata pronunciata da Canio). Ma di quale commedia si tratta? Quella inscenata dai pagliacci o quella della vita stessa degli attori?


LA TRAMA

La vicenda si svolge a Montalto, paesino della Calabria, nel giorno della festa di Mezzagosto.

Prologo.
Tonio (baritono) si presenta al pubblico a sipario chiuso, nelle vesti del Prologo. Egli spiega allo spettatore che tra poco sul palcoscenico si muoveranno non semplici maschere, ma uomini in carne ed ossa che si ameranno e si odieranno da veri esseri umani, poiché l’autore prima di loro ha versato calde lacrime nell’intento di “pingere uno squarcio di vita”.

Atto Primo.
Nelle prime ore del pomeriggio, squilli di tromba annunciano l’arrivo nel villaggio di una compagnia di
libretto dell'opera
attori girovaghi. Tutti accorrono festosamente mentre entra in scena una pittoresca carretta tirata da un asino che Peppe (tenore), in abito di Arlecchino, conduce a piedi. Ritto sulla carretta Canio (tenore), in costume di Pagliaccio, invita tutti all’esilarante spettacolo che avrà luogo quella sera stessa. Sul trabiccolo si trova anche Nedda (soprano), unica donna del gruppo nonché compagna di Canio. Tonio, personaggio goffo per il suo aspetto deforme e la sua dabbenaggine, cerca di aiutare Nedda a scendere dalla carretta, ma riceve un sonoro ceffone da Canio che, interrompendo l’iniziale ilarità, fa sapere che “il teatro e la vita non son la stessa cosa”: se sulla scena Pagliaccio coglie in flagrante adulterio la sua sposa, si limita a fare “un comico sermone”, ma se egli sorprendesse Nedda per davvero, la vicenda andrebbe a finire in maniera ben diversa. Nedda, in disparte, appare turbata da tale discorso. Le campane suonano a vespero. I presenti si separano: le donne si avviano verso la chiesa, gli uomini verso l’osteria. Rimasta sola, Nedda riflette sulle parole di Canio: per un attimo ella ha pensato che il compagno potesse leggerle negli occhi il suo inconfessabile segreto. Il sole di ferragosto e i versi degli uccelli la distolgono dai cattivi pensieri; ella canta una ballatella appresa da sua madre in cui paragona il volo degli uccelli alla sua sete di libertà. Il canto di lei non manca di attrarre Tonio che, dopo averle rivolto frasi concupiscenti, cerca di sedurla. La donna lo respinge a suon di frustate, facendosi beffe della sua rozzezza (“Ti sei svelato omai, Tonio lo scemo! Hai l’animo siccome il corpo tuo difforme, lurido!”). Tonio retrocede, giurando vendetta. Nedda riceve la visita di Silvio (baritono), suo amante segreto, al quale ella rivela l’accaduto. L’uomo le propone di fuggire con lui, troncando una buona volta la sua relazione con Canio. L’iniziale perplessità di lei lascia il posto a languide effusioni amorose che vengono intercettate da Tonio il quale, non visto dai due, corre a chiamare Canio. Nel frattempo i due amanti si accordano per fuggire insieme quella notte stessa; Canio giunge giusto in tempo per udire l’ultima frase di lei (“A stanotte, e per sempre tua sarò!”), ma non riesce a catturare l’ignoto amante, poiché questi fugge via repentinamente e senza farsi riconoscere. Furente, Canio chiede invano a Nedda di rivelargli il nome dello sconosciuto. Frattanto è giunta l’ora di allestire lo spettacolo e perciò Tonio consiglia a Canio di calmarsi, sperando che l’amante si faccia vivo tra il pubblico durante la recita e che in qualche modo si tradisca. Canio inizia a truccarsi, meditando sulla sua intima lacerazione tra l'essere attore buffo e al contempo un uomo straziato dal dolore (“… Tramuta in lazzi lo spasmo e il pianto, in una smorfia il singhiozzo e il dolor! Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto, ridi del duol che t’avvelena il cor!”).

Atto Secondo.

Placido Domingo interpreta Canio
Il pubblico prende posto nell'improvvisato teatrino all'aperto in cui lo spettacolo sta per cominciare. Anche Silvio è tra gli spettatori. Nedda, in costume di Colombina, si aggira tra la gente per raccogliere qualche moneta. Comincia la commedia, introdotta dalle note di un minuetto. Colombina (Nedda), approfittando dell'assenza del marito Pagliaccio (Canio), riceve in casa lo spasimante Arlecchino (Peppe). Anche il servitore Taddeo (Tonio) la corteggia e le dichiara il suo amore, ma viene scacciato in malo modo e inviato a sorvegliare l'eventuale ritorno di Pagliaccio. I due amanti iniziano a cenare scambiandosi sguardi appassionati, ma vengono interrotti dall'entrata di Taddeo che, trafelato, annuncia l'imprevisto ritorno di Pagliaccio. Arlecchino, prima di svignarsela, porge a Colombina una pozione ch'ella dovrà far bere a Pagliaccio per narcotizzarlo, di modo che nottetempo i due possano fuggire insieme. La donna saluta Arlecchino con le parole: “A stanotte, e per sempre sarò tua!”. Canio, all'udire le stesse parole che Nedda ha rivolto poc'anzi al suo amante segreto, compare in scena stravolto. Quello che doveva essere il brillante battibecco tra Pagliaccio e Colombina diventa un furibondo litigio tra Nedda e Canio, in cui quest'ultimo, rinfacciandole di averla raccolta dal marciapiede e di averla amata alla follia, le impone di rivelargli il nome dell'amante. Il pubblico applaude credendo che si tratti ancora di finzione scenica, mentre Nedda, con malcelata nonchalance, cerca invano di riprendere le fila della commedia. Tutto è vano: all'estremo rifiuto della donna, Canio la accoltella ferocemente. Nedda chiede soccorso a Silvio chiamandolo per nome; l'uomo le corre incontro sicché Canio, individuato l'avversario, si avventa contro di lui ferendolo a morte. Alcuni dei presenti, avendo finalmente compreso la reale portata della tragedia, si precipitano verso l'assassino per disarmarlo, ma egli, in stato confusionale, lascia cadere il coltello dicendo: “La commedia è finita!”