LA GIOVINEZZA NON HA CHE UNA STAGIONE
Breve introduzione all’opera “La Bohème” di Giacomo
Puccini
di
Fernando Greco
“La Bohème” di Giacomo Puccini (1858 – 1924) non
cessa di colpire il cuore dell’ascoltatore grazie al lirismo di una mirabile
pagina musicale che continua a tramandare eterna e immutabile la freschezza
dell’età giovanile, l’infinita tenerezza di quell’età beffarda, spensierata e
libertina destinata per ognuno a concludersi bruscamente con la constatazione
dell’umano dolore.
All’indomani del trionfo di “Manon Lescaut”,
opera andata in scena a Torino nel 1893, Puccini volse le
sue attenzioni al
romanzo “Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger (1822 – 1861) il cui
successo echeggiava negli ambienti culturali europei a quarant’anni dalla sua
pubblicazione. Per la prima volta nella storia, con Murger il termine “bohémien”
diventava sinonimo dell’artista giovane e squattrinato che inseguiva il proprio
desiderio di visibilità e di successo nella Parigi dell’Ottocento, indiscussa
capitale europea della cultura. Come zingari senza regole e senza fissa dimora,
frotte di intellettuali condividevano una vita fatta di ideali e sentimenti
autentici, ma anche di eccessi e trasgressioni, una vita insidiata dall’estrema
povertà e dall’attesa, spesso illusoria, della fatidica svolta. Lo stesso
Murger condusse un’esistenza da “bohémien” conclusasi in un ospizio all’età di
trentotto anni, e la sua opera letteraria attinse a piene mani dalle personali
esperienze in seno al gruppo di artisti denominati “Buveurs d’eau” di cui
faceva parte. Il successo del romanzo “Scènes de la vie de Bohème”, comparso a
puntate tra il 1845 e il 1849 su “Le corsaire de satan” (testata diretta da
Gérard de Nerval), regalò all’autore un periodo di celebrità e di fugace
agiatezza. Nel 1849 lo scritto divenne una pièce teatrale molto apprezzata da
nomi del calibro di Victor Hugo e Théophile Gautier; nel 1851 fu pubblicato per
intero in un unico volume.
EGLI MUSICHI, IO MUSICHERO’
Ironia della sorte, Giacomo Puccini e Ruggero
Leoncavallo (1857 – 1919) cominciarono contemporaneamente a lavorare su “La Bohème”
all’insaputa l’uno dell’altro, entrambi reduci dallo strepitoso successo
riportato dalle rispettive opere “Manon Lescaut” e “Pagliacci”. Alla scoperta
della cosa, ognuno si ritenne il primo ideatore del progetto e pertanto i due,
pur amici di vecchia data, intrapresero una feroce battaglia su carta stampata
per garantirsi il primato dell’idea. Dopo vari comunicati da parte dei relativi
editori, ovvero Sonzogno per Leoncavallo e Ricordi per Puccini, lo stesso
Puccini sfidò personalmente il collega sulle pagine del Corriere della Sera del
21 marzo 1893: “E’ certo che se il
maestro Leoncavallo, al quale da tempo sono legato da vivi sentimenti di
amicizia, mi avesse confidato prima quello che improvvisamente mi ha fatto
sapere l’altra sera, io non avrei allora pensato alla Bohème di Murger. Ora,
per ragioni facili a comprendersi, non sono più in tempo a voler essere cortese
come vorrei all’amico e al musicista. Del resto, cosa importa al maestro
Leoncavallo di questo? Egli musichi, io musicherò. La precedenza in arte non
implica che si debba interpretare il medesimo soggetto con uguali intendimenti
artistici. Tengo solo a far sapere che da circa due mesi, e cioè fin dalle prime
rappresentazioni di Manon Lescaut, ho lavorato seriamente alla mia idea e non
ne ho fatto mistero con alcuno”.
DIRITTI ALLO SCOPO
Durante la gestazione dell’opera non mancarono
intoppi e perplessità tra Puccini e i librettisti Luigi Illica e Giuseppe
Giacosa (team che l’editore Giulio Ricordi amava definire scherzosamente “santissima
trinità”, responsabile dei titoli più importanti del catalogo pucciniano quali
Manon Lescaut, Bohème, Tosca e Butterfly). Su tutto predominava l’esigenza di
sintesi da parte del compositore, desideroso di trarre dalla dispersiva coralità
del romanzo singole situazioni che evidenziassero l’intima purezza dei
personaggi femminili, come sempre quelli a cui dedicava le sue maggiori cure.
In particolare Puccini intervenne sulla trama del quarto e ultimo atto
dell’opera, eliminando qualsiasi elemento del testo letterario che potesse
distrarre l’ascoltatore dalla morte di Mimì. A tal proposito così scriveva a
Illica: “All’atto quarto è tutta roba
inutile e musicando ho visto che è meglio andar diritti allo scopo!” E per
allentare le tensioni dopo l’ennesimo alterco con Giacosa, il musicista gli
inviò simpaticamente i seguenti versi:
“Ti rammento l’atto quartoPerch’io presto me ne parto.Cerca, trova, taglia, inverti,che tu re sei tra gli esperti.Ti ricordi di ridurrele scenette in cima all’atto?Quando tutto sarà fatto,qual sospiro emetterem!Ma la morte di Mimìsolo tu puoi preparar,poi con quattro do, re, milancerem la barca in mar!”
IL MANICOTTO DI FRANCINE
Nell’ultimo capitolo del romanzo, intitolato “La
giovinezza non ha che una stagione”, Murger mostrava come i quattro amici
bohèmiens, un anno dopo la morte di Mimì, fossero diventati ricchi e famosi e
ricordassero il passato non senza nostalgia, mentre Puccini voleva far
terminare la stagione della gioventù e la sua stessa opera con l’amaro
disincanto della morte. Di fatto la composizione dell’ultimo atto de “La Bohème”
tolse il sonno al suo autore per un intero anno, fino a quando Giacosa e Illica
gli proposero di inserire nella vicenda il particolare del manicotto di
pelliccia che nel romanzo originario apparteneva non a Mimì, ma a Francine,
personaggio femminile protagonista di un toccante episodio collaterale narrato
nel capitolo intitolato per l’appunto “Il manicotto di Francine”. La proposta piacque al Maestro:
finalmente l’opera venne ultimata e, il 1 febbraio 1896, debuttò sul
palcoscenico del teatro Regio di Torino, lo stesso che tre anni prima aveva
accolto i fasti di “Manon Lescaut”. Per l’occasione, Ricordi ingaggiò un
promettente direttore d’orchestra, ovvero un Arturo Toscanini appena
ventottenne, la cui formidabile concertazione non fu però in grado di evitare la
fredda accoglienza da parte della critica. All’indomani della prima, così Carlo
Bersezio scriveva su “La gazzetta piemontese”: “La Bohème, come non lascia grande impressione nell’animo degli
uditori, così non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico”.
Mai sentenza si sarebbe rivelata più erronea se già a partire dalle repliche romane
della fine del febbraio 1896, “La Bohème” avrebbe intrapreso il suo glorioso
cammino nel mondo.
LO STILE DI CONVERSAZIONE
“Melodista
gentile, sospiroso, sentimentale, Giacomo Puccini si compiacque dell’idillio e
dell’elegia, dei mezzi toni espressivi, delle sfumature delicate … Prese le
mosse dalla femminea eleganza di Massenet, non ignorò i sortilegi dell’arte
debussysta e si compiacque sempre nell’eleganza un po’ mondana di tono
francese”. Il compositore de “La
Bohème” è tutto in questo giudizio espresso dall’autorevole Massimo Mila (“Breve
storia della musica” – 1963), la cui formidabile capacità di sintesi rimane
ineguagliata nella storia della critica musicale. Sulla scia del “Werther” di
Jules Massenet (1842 – 1912), rappresentato per la prima volta a Parigi nel
1892, Puccini continua a coltivare quello stile “di conversazione” di matrice
impressionista, irrobustito da un’inventiva melodica tutta peculiare, che
talora si espande in oasi liriche dal potere ipnotico, destinate a rimanere per
sempre scolpite nel cuore dell’ascoltatore. Le memorabili parole di Debussy a
proposito di quella “infaticabile
curiosità di Massenet a cercare nella musica documenti per servire alla storia
dell’anima femminile” si attagliano ancor meglio alla creatività
pucciniana, tesa alla realizzazione di donne indimenticabili. Mentre il romanzo
di Murger verte sulle vicissitudini dei quattro amici “bohémiens”, il nucleo de
“La Bohème” di Puccini è rappresentato dal personaggio di Mimì e dalla storia
d’amore che si conclude con la morte di lei, eventi rispetto ai quali tutto il
resto della vicenda diventa parallelo, seppur non meno efficace. Se la Mimì di
Murger è una donnina non priva di cinismo e di senso pratico, che lascia e
prende il suo Rodolfo per due volte (un po’ come succede nelle attuali
soap-opera), la Mimì di Puccini è una “soave fanciulla” innamorata della vita,
una vita minata dalla malattia fin dal primo atto dell’opera: la “gelida
manina”, il “viso da ammalata”, non ostacolano la sua sete di felicità,
l’attesa della primavera, quando ella spalancherà la finestra della sua
soffitta per accogliere il calore del sole e godersi la fioritura di quelle
rose che d’inverno può solo limitarsi a ricamare. Nell’incantevole scena
dell’incontro con Rodolfo, è lei a prendere l’iniziativa, dapprima con la scusa
del lume spento e poi con quella della chiave perduta: se mai si possa parlare
di seduzione, mai gioco della seduzione fu più tenero e commovente. In
contrasto con Murger, Puccini trova il modo di salvaguardare l’innocenza di
Mimì in ogni dettaglio della vicenda, perfino nel momento in cui la ragazza abbandona
lo squattrinato Rodolfo per accettare le profferte amorose di un ricco
visconte: paradossalmente sarebbe lo stesso Rodolfo a consigliare alla donna
una tale soluzione affinchè ella, all’aggravarsi delle proprie condizioni di
salute, possa vivere in maniera più confortevole.
LA CHANTEUSE, IL PITTORE E IL FILOSOFO
Accanto ai due protagonisti, non meno tenera è la
coppia costituita da Marcello e Musetta. In particolare ci colpisce la finta
indifferenza con cui il pittore cerca di dissimulare la gelosia nei confronti
dell’amata, donna molto più disinibita di Mimì, che nel secondo atto si
presenta al pubblico come una discinta chanteuse. Basta però ascoltare la struggente
melodia che Puccini le mette in bocca, seppur mascherata dalla leggerezza del
ritmo di un valzer alla francese, per convincersi dell’indubbia bontà di fondo
del personaggio. Pertanto, alla fine del secondo atto, l’abbraccio con il
ritrovato Marcello riuscirà a commuoverci quasi quanto la scena della morte di
Mimì. Non a caso sarà la stessa Musetta, verso la fine dell’opera, a recitare
una preghiera per l’amica moribonda. Come non intenerirsi, infine, dinanzi
all’austero e anarcoide filosofo Colline? La sua predilezione per i libri
antichi, la sua barba incolta nonché la sua corda di basso profondo, ne fanno
l’esempio di quell’adolescente intellettualmente “impegnato”, colui che si
crede tutto d’un pezzo, ma che nell’intimo nasconde una singolare nobiltà
d’animo. E così, verso la fine dell’opera, anche la sua “Vecchia zimarra”
riuscirà a commuoverci quasi quanto la morte di Mimì.
partitura di La Bohéme autografa |
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