LA LUCE CHE SORGE OGNI MATTINA
Breve introduzione all’opera “Il barbiere di Siviglia” di Gioachino
Rossini,
primo allestimento nel Cartellone della 46° Stagione Lirica Tradizionale
del Teatro Politeama Greco di Lecce.
di
Fernando Greco
“Il barbiere di Siviglia”
rappresenta il capolavoro assoluto di un compositore “più avvezzo alla commedia
che alla tragedia”, come lo stesso Rossini amava definirsi, e conserva intatta
la sua freschezza a quasi due secoli dalla sua creazione. Per dirla con
Ildebrando Pizzetti, “… è come la luce che sorge ogni mattina, e che non è oggi
quella di ieri, ma non è un’altra: ogni volta quest’opera ci riempie il cuore
di letizia e di gioia”. Dal tessuto musicale all’evolversi delle situazioni,
tutto nell’opera si incastona come in un perfetto meccanismo a orologeria che
scandisce il ritmo di una comicità sempre incalzante, senza attimi di cedimento
o di stagnazione.
UNA PIèCE RIVOLUZIONARIA
Ad appena ventitre anni, età in
cui si accinge alla stesura del suo “Barbiere”, Gioachino Rossini (1792 – 1868)
è già da qualche tempo un compositore di fama nazionale. Nel 1812 ha debuttato
alla Scala di Milano con il dramma buffo “La pietra del paragone”, il cui
clamoroso successo ha permesso al giovane compositore di essere esonerato dal
servizio militare, mentre il 1813 ha segnato il trionfo del “Tancredi” al
teatro La Fenice di Venezia. Dopo la strepitosa accoglienza dell’opera
“Elisabetta regina d’Inghilterra” da parte dell’esigente pubblico napoletano
(protagonista la divina Isabella Colbran), il Pesarese si trasferisce a Roma
dove nel dicembre 1815 l’opera “Torvaldo e Dorliska” riscuote un tiepido
successo. L’opportunità del riscatto sembra presentarsi quando il duca
Francesco Sforza Cesarini, ovvero il più celebre impresario teatrale della
Città Eterna, commissiona all’autore un’opera lirica per la nuova Stagione di
Carnevale del teatro Argentina: nonostante manchino solo due mesi al debutto,
Rossini accetta senza riserve e si tuffa nel lavoro con febbrile entusiasmo,
scegliendo personalmente il soggetto della nuova partitura. Si tratta della celebre
e rivoluzionaria pièce teatrale di Beaumarchais dal titolo “La Précaution
Inutile ou Le Barbier de Séville” (antecedente dal punto di vista narrativo
rispetto a “Le mariage de Figaro” da cui Mozart aveva tratto l’omonimo
melodramma), già messa in musica almeno tre volte nella seconda metà del ‘700,
periodo di massimo splendore dell’Opera Buffa di scuola napoletana, di cui il
tarantino Giovanni Paisiello (1740 – 1816) rappresenta l’esponente di maggior
spicco.
IL FIASCO CLAMOROSO
“Il Barbiere di Siviglia” composto
da Paisiello nel 1782 alla corte dell’imperatrice Caterina II di Russia
continuava a mietere entusiasti consensi in tutta Europa quando “Il Barbiere”
rossiniano debuttò a Roma il 20 febbraio 1816. Né la partecipazione del più
famoso basso buffo in circolazione, ovvero Luigi Zamboni nel ruolo di Figaro, né
quella del tenore Manuel Garcia (padre del mitico soprano Maria Malibran),
sivigliano doc, nel ruolo di Almaviva, furono sufficienti a evitare un
clamoroso fiasco, innescato e rinfocolato durante lo svolgimento dell’opera, dall’ostilità
dei numerosi sostenitori di Paisiello offesi dal fatto che un giovane come
Rossini osasse confrontarsi con un mostro sacro di tale portata. Non servì a nulla
nemmeno la modifica del titolo, che da “Il Barbiere di Siviglia” era stato cambiato
a bella posta in “Almaviva, o sia L’inutile precauzione”.
“IO MI ERO DISPOSTA A TUTTO”
Il mezzosoprano Geltrude Righetti
- Giorgi, protagonista della prima nel ruolo di Rosina nonché coetanea e
fervida ammiratrice di Rossini, redasse una preziosa cronaca di quell’infelice serata:
“ […] Il
tenore Garcia, dopo aver accordata la chitarra sulla scena, locchè
eccitò le risa degli indiscreti, cantò con poco spirito le sue cavatine, che
vennero accolte con disprezzo. Io mi ero disposta a tutto. Salii trepidante la
scala che dovevami portare sul balcone per dire queste due parole: “Segui, o
caro, deh segui così!”. Avvezzi i romani a colmarmi di plauso, si aspettavano
che io li meritassi con una cavatina piacevole e amorosa. Quando intesero
quelle poche parole, proruppero in fischi e schiamazzi. Dopo, accadde ciò che
doveva necessariamente accadere: la cavatina di Figaro sebbene cantata
maestrevolmente da Zamboni, e il bellissimo duetto fra Figaro e Almaviva,
cantato pure da Zamboni e da Garcia, non furono neppure ascoltati. Finalmente
io comparvi sulla scena, non più alla finestra, ripresi coraggio e come io
cantassi la cavatina della “Vipera” lo dicano i romani stessi e lo dirà
Rossini. Essi mi onorarono con tre consecutivi plausi generali, e Rossini
alzossi pure una volta per ringraziarli. Egli che stimava moltissimo la mia
voce, a me si volse dal cembalo e mi disse scherzando: “Ah natura!”.
“Ringraziala – gli risposi io sorridendo – che senza il suo favore, a questo
punto tu non ti levavi dal seggio!”. Si credette allora risorta l’opera; ma non
fu così. Si cantò fra me e Zamboni il bel duetto di Rosina e di Figaro, e
l’invidia fatta più rabbiosa sviluppò tutte le sue arti. Fischiate da ogni
parte. […] Non si possono descrivere le contumelie cui andò soggetto Rossini,
che se ne stava impavido al suo cembalo e pareva dicesse: “Perdona, o Apollo, a
questi signori che non sanno ciò che facciano”. Eseguito l’atto primo, Rossini
avvisò di far plauso con le mani, non alla sua opera, come fu creduto
comunemente, ma agli attori, che, a vero dire, avevano procurato di fare il
loro dovere. Molti se ne offesero. Ciò basti a dare un’idea del successo
dell’atto secondo. Rossini si partì dal teatro come se vi fosse stato qualche
spettatore indifferente. Piena l’anima di questa vicenda, mi portai alla sua
casa per confortarlo: ma egli non aveva bisogno delle mie consolazioni,
dormivasi tranquillamente […]”.
Già durante le successive
repliche del “Barbiere”, i romani avrebbero compreso e apprezzato le grandi
innovazioni stilistiche apportate da Rossini alle convenzioni dell’Opera Buffa,
quella geniale ventata di freschezza che il pubblico di tutto il mondo avrebbe
amato viepiù lungo il corso dei secoli successivi decretando l’indiscusso
predominio del capolavoro rossiniano rispetto al pur illustre precedente
paisielliano.
IL MODERNO SELF-MADE MAN
In accordo con Alberto Zedda,
massimo esperto di filologia rossiniana, si può affermare che il personaggio di
Figaro recuperi dalla penna di Rossini l’originario piglio illuminista e rivoluzionario
del testo di Beaumarchais (1775): l’intraprendente barbiere rappresenta di
fatto il moderno self-made man, il borghese che “trova occasioni per maturare e
realizzare progetti ambiziosi” grazie alla sua intelligenza e alla sua cultura.
Cultura sì, perché Beaumarchais ci fa sapere che Figaro ha sfortunati trascorsi
di letterato e commediografo (si comprende così, nel primo recitativo tra
Almaviva e Figaro, la battuta di quest’ultimo: “La miseria, signore!”). Sempre
secondo Zedda “L’intraprendente giovanotto scorda presto la frustrazione e si
afferma protagonista: mediatore di sponsali, consolatore di fanciulle e
vedovelle, barbiere, parrucchier, chirurgo, botanico, spezial, veterinario …
Nella celebre cavatina di sortita (un uragano di facelle ritmiche e vocali che
deve aver sconvolto lo spettatore della prima abituato alla grazia sentimentale
di Paisiello), Figaro esalta l’ingegnosità e lo spirito d’iniziativa che l’hanno
elevato a una posizione sociale sconosciuta alla sua classe”, posizione che gli
permette di essere rispettoso, ma mai servile nei confronti dei nobili. Il
contrasto tra vecchio e nuovo si appalesa nel confronto con il personaggio di
Don Basilio, ovvero lo stereotipo dell’intrigante di vecchio stile, quasi una
maschera della Commedia dell’Arte, a cui Rossini riserva la celeberrima aria
della Calunnia destinandogli non a caso la “vetusta” corda del basso buffo,
mentre per Figaro crea la “nuovissima” corda del baritono brillante, timbro che
da ora in poi caratterizzerà la nuova drammaturgia musicale. Il nucleo
squisitamente comico della vicenda risiede nel personaggio del Dottor Bartolo,
vecchio pedante, “avaro e brontolone” davanti al quale tutti fanno buon viso e
cattivo gioco, compresi i suoi servi, e in fondo questo è il motivo per cui
tutti provano per lui anche un senso di tenerezza, se non addirittura un
frustrato sentimento amoroso, come lascia intendere la cameriera Berta nella
deliziosa aria di sorbetto “Il vecchiotto cerca moglie”. Alla fine, egli sarà
costretto a cedere il passo ai giovani soggiacendo di buon grado all’evidenza
di essere stato gabbato (“Insomma io ho tutti i torti!”). Mutatis mutandis, si
tratta della stessa morale che Donizetti, aggiungendovi un sentimento di
nostalgia tutto romantico, avrebbe espresso trent’anni dopo nel “Don Pasquale”.
IL PRAGMATISMO DI ROSINA
Con il personaggio di Rosina
prosegue la scia di quelle donne al contempo tenere e volitive, succubi ma dal
carattere forte e determinato, protagoniste del genere giocoso fin dai suoi
esordi, a partire da Serpina, ne “La Serva Padrona” di Pergolesi (1733), per
giungere a Susanna ne “Le nozze di Figaro” di Mozart (1786); eppure, anche nei
riguardi di Rosina il Pesarese crea un personaggio più moderno. Ci soccorre
ancora una volta l’illuminante pensiero di Alberto Zedda: “Rosina è lontana
dalla manierata svenevolezza di tante innamorate dell’opera buffa e non
sorprende che la sincerità di sentimenti e atteggiamenti lontani dal
conformismo convincano il Conte Almaviva a trasformare l’ennesima avventura in
un vero incontro d’amore”. In altre parole, la furba ragazza esibisce un
pragmatismo del tutto nuovo rispetto alle sdolcinatezze delle sue antenate:
davanti all’anonima serenata ella mette subito le mani avanti, chiedendo per
prima cosa al corteggiatore di riferirle le sue generalità e le sue intenzioni.
Per questo motivo, caso unico nella storia dell’opera, il tenore inizia cantando
ben due romanze consecutivamente (la galante serenata “Ecco ridente in cielo” e
la più personalizzata “Se il mio nome saper voi bramate”) e finirà, lui Grande
di Spagna, con lo sposare una borghese, altro fatto decisamente rivoluzionario
per i costumi dell’epoca. Né va dimenticato che in origine Almaviva è il
title-role dell’opera, e perciò Rossini scrive per questo personaggio un
magnifico rondò finale, “Cessa di più resistere”, massimamente virtuosistico e mai
scomparso dalla partitura seppur evitato spesso e volentieri. Nell’ultimo
ventennio una prassi esecutiva più rigorosa ha favorito la ricomparsa di questa
pagina che l’autore, in occasione della successiva “Cenerentola” (1817),
trascrisse per la corda contraltile della stessa Geltrude Righetti - Giorgi che
era stata la Rosina del debutto.
AL CALAR DEL SIPARIO
Il lieto fine dell’opera viene
ottenuto facendo ricorso alla scena dell’agnizione o della “sbottonatura”,
secondo l’antico gergo teatrale: creduto un impostore, Almaviva si toglie il
mantello per rivelare a Rosina la sua vera identità che è quella di un nobile,
un Grande di Spagna. Ancora una volta l’autore si serve di cristallizzate
convenzioni per farle implodere attraverso profondi cambiamenti di stile che di
fatto determinano la fine della grande stagione dell’Opera Buffa, una fine che però
Rossini sceglie di celebrare con i fuochi d’artificio. Figaro, spegnendo la
lanterna al termine del “Barbiere”, di fatto la spegne sugli ultimi bagliori di
un Settecento ormai definitivamente concluso. Per dirla con Bruno Cagli,
presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, “Alla fine dell’intrigo, Figaro se
la caverà con un generico auspicio: - Di sì felice innesto serbiam memoria
eterna! - Ma subito aggiungerà: - Io smorzo la lanterna, qui più non ho che
far! –. Cosicché, a rigor di logica scenica e teatrale, gli altri dovrebbero
restare al buio per cantare il loro – Amore e fede eterna - . E non è una
logica che poteva essere casuale sotto la penna di un attardato e deluso figlio
dell’Illuminismo come in cuor suo era il Pesarese. Il sipario in realtà calava
non sull’eternità dell’amore e della fede, come suggerivano le augurali parole,
ma su tutto un mondo di cui l’opera buffa era stata interprete e che non
avrebbe mai più potuto trovare quella felicità e quella concordia che per
l’ultima volta, pur con la piena consapevolezza delle ombre che si addensavano,
il capolavoro di Rossini aveva inverato”.
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