lunedì 23 novembre 2015

Maglie: una piccola grande Bohème

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Capita che qualche giorno dopo aver assistito a un grandioso allestimento della Bohème in quel di Bari, ti trovi senza nessuna aspettativa ad assistere a uno spettacolo “di paese”, di quelli a cui vai soltanto per applaudire gli amici, i volenterosi amici che senza orchestra, senza coro e senza soldi si impuntano a voler fare Bohème sul minuscolo palcoscenico del cine-teatro Moderno di Maglie, luogo come tanti altri in cui la necessità non diventa quasi mai virtù e l’imprevisto è sempre in agguato, compreso l’incepparsi del sipario. E invece ti trovi davanti al miracolo, il miracolo di quell’affinità al contempo umana e sovrumana che unisce in un unico abbraccio spettatori e interpreti per celebrare un rito comunitario, il magico rito del teatro, perché teatro sono le persone, le esperienze di vita che qualche genio come Puccini ha sublimato e universalizzato regalandole ogni volta vive e palpabili come fosse la prima volta.


FRESCHEZZA E POVERTA’
04_Giorgio Schipa
Se Puccini è “il geniaccio a cui riusciva maledettamente bene il suo lavoro” (parafrasando Baricco), la giovane e talentuosa regista Rosangela Giurgola è stata a Maglie la sua devota ancella, colei che, pur nella scarsezza di mezzi, è riuscita a evocare nel cuore del pubblico quella stagione unica e irripetibile della giovinezza di cui “La Bohème” è universale testimonianza. E quale può essere la stagione della gioventù per un adulto del 2015? Verosimilmente quella vissuta in un disadorno appartamentino preso in affitto insieme ad altri tre o quattro amici durante gli anni dell’università. Ecco qua il
03_Carlo Provenzano
 formidabile tuffo al cuore, quando all’aprirsi del sipario vedi quattro ragazzi in abiti contemporanei che condividono la povertà e la freschezza dei loro “anni di galera”, il pittore con le sue tele e le sue cornici, lo scrittore con i suoi fogli, il filosofo con i suoi libri e persino due musicisti con contrabbasso e pianoforte, poiché anche il pianoforte suonato per davvero dal volenteroso Nicola Morello è diventato parte della scena. In siffatto contesto, non ha senso chiedersi se il personaggio di Mimì sia più angelico o più provocatorio, poiché siamo nel XXI° secolo e non c’è da meravigliarsi se una giovane donna decide di vivere da sola, di prendere lei l’iniziativa con un uomo e addirittura di convivere con il suo compagno. Semmai viene da riflettere su quanto nell’Ottocento lo stile bohémien fosse all’avanguardia rispetto al provinciale perbenismo italiano, ancora oggi non del tutto annientato. Peccato per il vistoso taglio del secondo atto: quel sapiente intreccio di varia umanità che è anche il più importante banco di prova per il coro (quando c’è) e per il regista, qui è stato ridotto al dialogo tra i cinque bohémiens e all’entrata di Musetta. Eppure anche in questo caso il versante visivo non dispiaceva, composto esclusivamente dal bancone di un pub intorno a cui altercavano i protagonisti, con contorno di camerieri e giovani avventori in giubbini di pelle, praticamente un estratto della movida notturna. Peraltro la regista non ha sprecato nemmeno una nota dell’opera, pretendendo dai protagonisti movenze e gestualità sempre originali e studiatissime, che essi hanno realizzato con indubbia spontaneità, come ad esempio il comico tentativo dei bohémiens di eludere il padrone di casa mimetizzandosi tra le cornici dei quadri o il fatto che Rodolfo restituisca a Mimì la fatidica chiave durante la fine del primo atto oppure l’esilarante inseguimento tra Musetta e Marcello alla fine del terzo atto in cui, contrariamente al solito, è lei che vuole menare lui e non viceversa. L’inevitabile semplicità delle scene di Romeo Sicuro è stata arricchita dalle proiezioni di colorati sfondi parigini dipinti da Leonid Afremov, su cui campeggiava la scritta “Je suis Paris” in memoria delle vittime della recentissima strage. A tal proposito all’inizio dello spettacolo è stato osservato un minuto di silenzio.





UNA BELLA COPPIA E TANTI AMICI


La giovane compagnia di canto si è mostrata discretamente omogenea e in perfetta sintonia con le intenzioni registiche, a cominciare dall’intensa Mimì di Maria Luisa Lattante, soprano dal pregevole timbro vocale a cui la fresca liricità del personaggio calzava a pennello. 
05_Maria Luisa Lattante e Enrico Terrone
Notevole l’affiatamento con il Rodolfo interpretato con altrettanta freschezza e timbro vigoroso dal tenore Enrico Terrone, complice l’indubbia bellezza fisica di entrambi, una bella coppia anche per l’occhio. Il soprano Gloria Giurgola, chiamato a sostituire all’ultimo momento l’indisposta Simona Gubello, ha dato vita a una spigliatissima Musetta, vocalmente sicura e scenicamente irresistibile. Commovente la credibilità e l’aplomb 
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vocale del baritono Luca Simonetti nel ruolo di Marcello, il basso Carlo Provenzano ha interpretato il ruolo del “contrabbassista” Schaunard con voce possente e convincente phisique du role, ricco di voce il Colline del basso Antonio Mazza. Il baritono Giorgio Schipa ha vestito i panni di Benoit e di Alcindoro con puntuale verve comica e giusta caricaturalità. Il pianoforte dell’abile maestro Nicola Morello ha assolto senza cedimenti all’impegnativo ruolo di sostituto d’orchestra.
La Stagione Lirica di Maglie proseguirà il 14 dicembre prossimo con “L’Elisir d’amore”, altro sublime capolavoro dedicato alla gioventù, e speriamo che il miracolo di questa piccola grande Bohème si ripeta ancora, perché teatro … sono le persone.

domenica 15 novembre 2015

LA BOHÈME di Giacomo Puccini a Cura di Fernando Greco


LA GIOVINEZZA NON HA CHE UNA STAGIONE
Breve introduzione all’opera “La Bohème” di Giacomo Puccini

di Fernando Greco


“La Bohème” di Giacomo Puccini (1858 – 1924) non cessa di colpire il cuore dell’ascoltatore grazie al lirismo di una mirabile pagina musicale che continua a tramandare eterna e immutabile la freschezza dell’età giovanile, l’infinita tenerezza di quell’età beffarda, spensierata e libertina destinata per ognuno a concludersi bruscamente con la constatazione dell’umano dolore.  

VITA D’ARTISTA
All’indomani del trionfo di “Manon Lescaut”, opera andata in scena a Torino nel 1893, Puccini volse le
sue attenzioni al romanzo “Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger (1822 – 1861) il cui successo echeggiava negli ambienti culturali europei a quarant’anni dalla sua pubblicazione. Per la prima volta nella storia, con Murger il termine “bohémien” diventava sinonimo dell’artista giovane e squattrinato che inseguiva il proprio desiderio di visibilità e di successo nella Parigi dell’Ottocento, indiscussa capitale europea della cultura. Come zingari senza regole e senza fissa dimora, frotte di intellettuali condividevano una vita fatta di ideali e sentimenti autentici, ma anche di eccessi e trasgressioni, una vita insidiata dall’estrema povertà e dall’attesa, spesso illusoria, della fatidica svolta. Lo stesso Murger condusse un’esistenza da “bohémien” conclusasi in un ospizio all’età di trentotto anni, e la sua opera letteraria attinse a piene mani dalle personali esperienze in seno al gruppo di artisti denominati “Buveurs d’eau” di cui faceva parte. Il successo del romanzo “Scènes de la vie de Bohème”, comparso a puntate tra il 1845 e il 1849 su “Le corsaire de satan” (testata diretta da Gérard de Nerval), regalò all’autore un periodo di celebrità e di fugace agiatezza. Nel 1849 lo scritto divenne una pièce teatrale molto apprezzata da nomi del calibro di Victor Hugo e Théophile Gautier; nel 1851 fu pubblicato per intero in un unico volume.

EGLI MUSICHI, IO MUSICHERO’
Ironia della sorte, Giacomo Puccini e Ruggero Leoncavallo (1857 – 1919) cominciarono contemporaneamente a lavorare su “La Bohème” all’insaputa l’uno dell’altro, entrambi reduci dallo strepitoso successo riportato dalle rispettive opere “Manon Lescaut” e “Pagliacci”. Alla scoperta della cosa, ognuno si ritenne il primo ideatore del progetto e pertanto i due, pur amici di vecchia data, intrapresero una feroce battaglia su carta stampata per garantirsi il primato dell’idea. Dopo vari comunicati da parte dei relativi editori, ovvero Sonzogno per Leoncavallo e Ricordi per Puccini, lo stesso Puccini sfidò personalmente il collega sulle pagine del Corriere della Sera del 21 marzo 1893: “E’ certo che se il maestro Leoncavallo, al quale da tempo sono legato da vivi sentimenti di amicizia, mi avesse confidato prima quello che improvvisamente mi ha fatto sapere l’altra sera, io non avrei allora pensato alla Bohème di Murger. Ora, per ragioni facili a comprendersi, non sono più in tempo a voler essere cortese come vorrei all’amico e al musicista. Del resto, cosa importa al maestro Leoncavallo di questo? Egli musichi, io musicherò. La precedenza in arte non implica che si debba interpretare il medesimo soggetto con uguali intendimenti artistici. Tengo solo a far sapere che da circa due mesi, e cioè fin dalle prime rappresentazioni di Manon Lescaut, ho lavorato seriamente alla mia idea e non ne ho fatto mistero con alcuno”.

DIRITTI ALLO SCOPO
Durante la gestazione dell’opera non mancarono intoppi e perplessità tra Puccini e i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa (team che l’editore Giulio Ricordi amava definire scherzosamente “santissima trinità”, responsabile dei titoli più importanti del catalogo pucciniano quali Manon Lescaut, Bohème, Tosca e Butterfly). Su tutto predominava l’esigenza di sintesi da parte del compositore, desideroso di trarre dalla dispersiva coralità del romanzo singole situazioni che evidenziassero l’intima purezza dei personaggi femminili, come sempre quelli a cui dedicava le sue maggiori cure. In particolare Puccini intervenne sulla trama del quarto e ultimo atto dell’opera, eliminando qualsiasi elemento del testo letterario che potesse distrarre l’ascoltatore dalla morte di Mimì. A tal proposito così scriveva a Illica: “All’atto quarto è tutta roba inutile e musicando ho visto che è meglio andar diritti allo scopo!” E per allentare le tensioni dopo l’ennesimo alterco con Giacosa, il musicista gli inviò simpaticamente i seguenti versi:

“Ti rammento l’atto quartoPerch’io presto me ne parto.Cerca, trova, taglia, inverti,che tu re sei tra gli esperti.Ti ricordi di ridurrele scenette in cima all’atto?Quando tutto sarà fatto,qual sospiro emetterem!Ma la morte di Mimìsolo tu puoi preparar,poi con quattro do, re, milancerem la barca in mar!”


IL MANICOTTO DI FRANCINE
Nell’ultimo capitolo del romanzo, intitolato “La giovinezza non ha che una stagione”, Murger mostrava come i quattro amici bohèmiens, un anno dopo la morte di Mimì, fossero diventati ricchi e famosi e ricordassero il passato non senza nostalgia, mentre Puccini voleva far terminare la stagione della gioventù e la sua stessa opera con l’amaro disincanto della morte. Di fatto la composizione dell’ultimo atto de “La Bohème” tolse il sonno al suo autore per un intero anno, fino a quando Giacosa e Illica gli proposero di inserire nella vicenda il particolare del manicotto di pelliccia che nel romanzo originario apparteneva non a Mimì, ma a Francine, personaggio femminile protagonista di un toccante episodio collaterale narrato nel capitolo intitolato per l’appunto “Il manicotto di Francine”.  La proposta piacque al Maestro: finalmente l’opera venne ultimata e, il 1 febbraio 1896, debuttò sul palcoscenico del teatro Regio di Torino, lo stesso che tre anni prima aveva accolto i fasti di “Manon Lescaut”. Per l’occasione, Ricordi ingaggiò un promettente direttore d’orchestra, ovvero un Arturo Toscanini appena ventottenne, la cui formidabile concertazione non fu però in grado di evitare la fredda accoglienza da parte della critica. All’indomani della prima, così Carlo Bersezio scriveva su “La gazzetta piemontese”: “La Bohème, come non lascia grande impressione nell’animo degli uditori, così non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico”. Mai sentenza si sarebbe rivelata più erronea se già a partire dalle repliche romane della fine del febbraio 1896, “La Bohème” avrebbe intrapreso il suo glorioso cammino nel mondo.          

LO STILE DI CONVERSAZIONE
“Melodista gentile, sospiroso, sentimentale, Giacomo Puccini si compiacque dell’idillio e dell’elegia, dei mezzi toni espressivi, delle sfumature delicate … Prese le mosse dalla femminea eleganza di Massenet, non ignorò i sortilegi dell’arte debussysta e si compiacque sempre nell’eleganza un po’ mondana di tono francese”. Il compositore de “La Bohème” è tutto in questo giudizio espresso dall’autorevole Massimo Mila (“Breve storia della musica” – 1963), la cui formidabile capacità di sintesi rimane ineguagliata nella storia della critica musicale. Sulla scia del “Werther” di Jules Massenet (1842 – 1912), rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1892, Puccini continua a coltivare quello stile “di conversazione” di matrice impressionista, irrobustito da un’inventiva melodica tutta peculiare, che talora si espande in oasi liriche dal potere ipnotico, destinate a rimanere per sempre scolpite nel cuore dell’ascoltatore. Le memorabili parole di Debussy a proposito di quella “infaticabile curiosità di Massenet a cercare nella musica documenti per servire alla storia dell’anima femminile” si attagliano ancor meglio alla creatività pucciniana, tesa alla realizzazione di donne indimenticabili. Mentre il romanzo di Murger verte sulle vicissitudini dei quattro amici “bohémiens”, il nucleo de “La Bohème” di Puccini è rappresentato dal personaggio di Mimì e dalla storia d’amore che si conclude con la morte di lei, eventi rispetto ai quali tutto il resto della vicenda diventa parallelo, seppur non meno efficace. Se la Mimì di Murger è una donnina non priva di cinismo e di senso pratico, che lascia e prende il suo Rodolfo per due volte (un po’ come succede nelle attuali soap-opera), la Mimì di Puccini è una “soave fanciulla” innamorata della vita, una vita minata dalla malattia fin dal primo atto dell’opera: la “gelida manina”, il “viso da ammalata”, non ostacolano la sua sete di felicità, l’attesa della primavera, quando ella spalancherà la finestra della sua soffitta per accogliere il calore del sole e godersi la fioritura di quelle rose che d’inverno può solo limitarsi a ricamare. Nell’incantevole scena dell’incontro con Rodolfo, è lei a prendere l’iniziativa, dapprima con la scusa del lume spento e poi con quella della chiave perduta: se mai si possa parlare di seduzione, mai gioco della seduzione fu più tenero e commovente. In contrasto con Murger, Puccini trova il modo di salvaguardare l’innocenza di Mimì in ogni dettaglio della vicenda, perfino nel momento in cui la ragazza abbandona lo squattrinato Rodolfo per accettare le profferte amorose di un ricco visconte: paradossalmente sarebbe lo stesso Rodolfo a consigliare alla donna una tale soluzione affinchè ella, all’aggravarsi delle proprie condizioni di salute, possa vivere in maniera più confortevole.




LA CHANTEUSE, IL PITTORE E IL FILOSOFO
Accanto ai due protagonisti, non meno tenera è la coppia costituita da Marcello e Musetta. In particolare ci colpisce la finta indifferenza con cui il pittore cerca di dissimulare la gelosia nei confronti dell’amata, donna molto più disinibita di Mimì, che nel secondo atto si presenta al pubblico come una discinta chanteuse. Basta però ascoltare la struggente melodia che Puccini le mette in bocca, seppur mascherata dalla leggerezza del ritmo di un valzer alla francese, per convincersi dell’indubbia bontà di fondo del personaggio. Pertanto, alla fine del secondo atto, l’abbraccio con il ritrovato Marcello riuscirà a commuoverci quasi quanto la scena della morte di Mimì. Non a caso sarà la stessa Musetta, verso la fine dell’opera, a recitare una preghiera per l’amica moribonda. Come non intenerirsi, infine, dinanzi all’austero e anarcoide filosofo Colline? La sua predilezione per i libri antichi, la sua barba incolta nonché la sua corda di basso profondo, ne fanno l’esempio di quell’adolescente intellettualmente “impegnato”, colui che si crede tutto d’un pezzo, ma che nell’intimo nasconde una singolare nobiltà d’animo. E così, verso la fine dell’opera, anche la sua “Vecchia zimarra” riuscirà a commuoverci quasi quanto la morte di Mimì.

partitura di La Bohéme autografa