martedì 12 aprile 2016

Don Pasquale di Gaetano Donizetti a cura di Fernando GRECO

UN AMARO SORRISO
Breve introduzione all’opera “Don Pasquale” di Gaetano Donizetti

di Fernando Greco


Per il bergamasco Gaetano Donizetti (1797 – 1848), dominatore incontrastato delle platee parigine, il “Don Pasquale” fu una sorta di canto del cigno, un testamento spirituale che nel 1843 era destinato non solo a chiudere definitivamente la stratosferica avventura francese, ma anche la carriera di un uomo sfortunato. Appena due anni dopo, il musicista sarebbe stato annientato da una paralisi cerebrale di origine luetica che l’avrebbe miseramente condotto alla tomba l’8 aprile del 1848.

L’INVIDIA DI BERLIOZ
Deluso per la mancata nomina a direttore del Conservatorio di Napoli, città che per un decennio ne aveva glorificato il genio e nella quale aveva visto la luce la celebre “Lucia di Lammermoor”, Donizetti nel 1838 si era trasferito a Parigi, città che, anche grazie al benevolo interessamento di Rossini, vide nel 1840 il trionfo di ben tre opere, ovvero “La fille du régiment”, “Les Martyrs” e “La Favorite”.
Per avere idea dell’unanime successo parigino, possiamo leggere le infuocate parole di Hector Berlioz (1803 – 1869) che, sentendosi mancare la terra sotto i piedi, così scriveva sul “Journal des Débats”:  “… Pensate un po’: due grandi partiture per l’Opéra, “Les Martyrs” e “Le Duc d’Albe”; altre due per la Renaissance, “Lucie de Lammermoor” e “L’ange de Nisida”, due per l’Opéra-Comique, “La fille du régiment” e un’altra di cui non si conosce il titolo; e poi un’altra ancora per il Théatre des Italiens: queste sono le opere che nel giro di un anno saranno scritte o rielaborate dallo stesso autore! Il signor Donizetti ha l’aria di volerci trattare da paese conquistato, la sua è una vera e propria guerra di invasione. Non potremo più parlare dei teatri lirici di Parigi, ma dei teatri di Donizetti!”

UNA GESTAZIONE TRAVAGLIATA
All’indomani del trionfo riportato con “Linda di Chamounix” il 4 marzo 1842 a Vienna, dove per l’occasione fu nominato Compositore di Corte (titolo già conferito a Mozart), il Bergamasco intraprese la composizione di una nuova opera per il Théatre des Italiens ispirandosi al “Ser Marcantonio”, opera buffa di Stefano Pavesi andata in scena nel 1810, affidando la stesura del nuovo libretto a Giovanni Ruffini, esule mazziniano.
Pare che il canovaccio musicale sia stato ultimato da Donizetti in soli undici giorni, mentre più travagliata fu la gestazione del libretto a causa dei continui contrasti tra il poeta e il musicista il quale, oltre a contestare e modificare continuamente i versi, pretendeva che l’opera venisse rappresentata in costumi contemporanei, contrariamente a trine e parrucche di stampo settecentesco previste dall’opera originaria e auspicate da Ruffini. Al culmine del litigio, il Ruffini disconobbe la paternità del libretto, che rifiutò di sottoscrivere. Per superare l’empasse furono utilizzate le iniziali M. A. dell’amico Michele Accursi e finalmente, il 3 gennaio 1843, il “Don Pasquale” andò in scena riscuotendo il plauso unanime degli spettatori. La magica alchimia parigina si realizzò ancora una volta: sulle tavole del palcoscenico era nato un nuovo capolavoro, anche grazie all’intervento di un cast di stelle tra cui figuravano gli applauditissimi cantanti Luigi Lablache e Giulia Grisi. Lo stesso Fryderyk Chopin, arbiter degli intellettuali parigini, ne fu entusiasta.

UN’ESISTENZA AL TRAMONTO
Non sappiamo se Donizetti fosse già consapevole della propria malattia al momento della composizione del “Don Pasquale”. Di fatto, le vicissitudini del vecchio ricco e baldanzoso che, credendosi ancora un galletto, si trova necessitato a prendere coscienza del proprio decadimento, seppur con un sorriso amaro sulle labbra, rappresentano il modo più elegante per concludere una carriera di successo, così come avrebbe fatto una cinquantina d’anni dopo l’anziano Giuseppe Verdi, che dando vita al suo geniale “Falstaff” avrebbe abbandonato le tavole del palcoscenico e le umane cure con la tenera leggerezza di una commedia piuttosto che con la scomposta passionalità di una tragedia. Peraltro il “Don Pasquale” rappresenta l’ultima propaggine di quella tradizione buffa italiana che, nata nel Settecento con Paisiello, Pergolesi e Cimarosa, aveva avuto il suo massimo rigoglio con Gioachino Rossini. Mentre la comicità settecentesca aveva attinto a piene mani da Mozart e da quel lucido e spassionato razionalismo che caratterizzava l’Età dei Lumi, nell’opera donizettiana il carattere giocoso non è mai privo di certo languore tutto Romantico e, per dirla con Celletti, “… Il lirismo e la malinconia si contrappongono al sorriso malizioso o anche alla schietta risata”. E quando il vecchio protagonista, dopo aver ricevuto dalla giovane moglie un sonoro ceffone, canta “E’ finita, Don Pasquale!”, non si possono trattenere le lacrime davanti alla constatazione della fine, la fine della giovinezza, il tramonto della vita.
locandina - produzione del Teatro Il Ducale di Cavallino (LE)
stagione 2016

LA TRAMA
Di per sé, l’intreccio rispetta i classici topoi dell’opera buffa tradizionale, compreso lo scambio di persona effettuato per favorire un amore contrastato.
Maurizio Picconi
nel ruolo di Don Pasquale
Il giovane e aitante Ernesto (tenore), unico nipote nonché unico erede di Don Pasquale (basso), ricco scapolo settantenne, vuole unirsi in matrimonio con l’intraprendente Norina (soprano) suscitando le ire dello zio, che invece lo vorrebbe accasato con una nobile zitella. Per punire il nipote, Don Pasquale decide pertanto di trovar moglie egli stesso, pur in età così avanzata, in modo da diseredarlo e scacciarlo dalla propria casa. Il dottor Malatesta (baritono), amico e confidente del vecchio, gli propone in sposa sua sorella Sofronia, presentandola come una giovinetta garbata e virtuosa, “fresca uscita di convento” e “bella siccome un angelo”. Don Pasquale accetta con entusiasmo, sentendosi già addosso il “foco insolito” della passione. Il poveretto ignora però che Malatesta è complice di Norina e che la pudica Sofronia altri non è che la stessa Norina che, una volta divenuta la padrona di casa, inizia da subito a rendere la vita impossibile al povero Don Pasquale. Con un’arroganza del tutto nuova e imprevedibile, la donna inizia a sperperare soldi e maltrattare il marito fino a fargli credere di avere addirittura un amante, che ella si accinge a incontrare in giardino con il favore della notte. Don Pasquale si apposta perciò insieme con Malatesta, sperando di cogliere la moglie in flagranza di reato così da poterla ripudiare. In realtà l’amante misterioso è Ernesto che, informato per tempo da Malatesta circa il piano ordito per ingannare Don Pasquale, non si lascia scoprire dal vecchio in compagnia di Sofronia: già la presenza di lei, da sola in giardino di notte, è indizio certo di reato. Il dottor Malatesta, avuti da Don Pasquale pieni poteri per sistemare la faccenda senza scandali, rimprovera la finta sorella e la informa che l’indomani sarebbe arrivata la nuova padrona di casa, ovvero Norina, sposa di Ernesto. Davanti alle rimostranze della donna, che preferisce la prospettiva di andar via definitivamente piuttosto che condividere il tetto con un’altra, Don Pasquale fa chiamare Ernesto e la sconosciuta Norina per ratificare la nuova unione davanti alla fedifraga Sofronia. A Malatesta non rimane che scoprire le carte in tavola: Sofronia e Norina sono la stessa persona. Dopo un primo accesso di collera davanti alla constatazione dell’inganno, Don Pasquale benedice la nuova coppia formata da Ernesto e Norina, contento per avere sventato il rischio di una scomoda vita matrimoniale: finalmente ha capito a proprie spese che

“Ben è scemo di cervello
chi s’ammoglia in vecchia età;
va a cercar col campanello

noie e doglie in quantità!”

Fernando Greco